Nazione: RFT
Anno: 1968
Durata: 85'


Abram, un meccanico ventenne, ritorna dopo una lunga assenza nel villaggio della Bassa Baviera in cui è cresciuto. Gli abitanti sono sospettosi nei suoi confronti, lo credono un omosessuale, e insinuano che sia stato in prigione. Abram s rende utile riparando le macchine agricole e sopporta pazientemente lo scherno e le beffe di cui è fatto segno. L'unica persona che gli dimostra affetto è Hannelore, la domestica del borgomastro, ma si sa che va a letto con tutti, preferibilmente a pagamento. Ma ormai tutto il. paese, istigato dalla macellaia, che teme per l'educazione dei suoi figli, è contro Abram; sembra che Hannelore aspetti un figlio da lui, e quando Abram vuol lasciare definitivamente il paese, la donna cerca di impedirglielo. In preda al panico Abram la accoltella e fugge nel bosco, dove viene braccato da tutto il villaggio, mentre la polizia attende che le venga consegnata la preda.


Così presentato, il contenuto introduce nella tessitura delle immagini un piano di astrazione che il lavoro, per sé, non ricerca affatto. Fleischmann narra con immediatezza, senza complicazioni di sorta. La sequenza d'apertura mostra il prete, poi la comunit`, poi la ragazza frenastenica mentre entra in chiesa e si arresta a fissare il soffitto, poi una carrellata sulle scene di crudo realismo ivi raffigurate. L'orrore degli affreschi vuole essere analogia dell'orrore alla chiusa del film, ma paralleli di questo genere sono frequentissimi e taluni emergono solo se si guardano le fotografie (così quella di Paula mentre si accarezza e il regista la inquadra tra le zampe di un animale macellato). Scene di caccia in Bassa Baviera è un quadro di genere che ricostruisce una provincia dove il disprezzo per il marginale è ancora immediato e non esistono o quasi gruppi né circoli disposti a tollerare un invertito.
Gli attori di Fleischmann, soprattutto Martin Sperr (autore dell'opera di teatro dalla quale è tratto il film) nella parte di Abram, recitano con sincerit` assoluta ed è difficile distinguere i professionisti dagli altri.
Il soggetto di Fleischmann si compone di un'antologia delle frasi più efficaci di Sperr. Il regista le fa dire in dialetto bavarese, e perciò chi non è nato in Baviera riesce a cogliere solo brani del dialogo cui si sovrappongono per di più, quasi continuamente, i rumori del lavoro. La comprensibilit` non ne risulta tuttavia diminuita. Le azioni e la gestualit` sono, di tale plasticit` da rendere superflua la parola. La convenzionalit` continua della forma narrativa assicura la comprensibilit` anche oltre la barriera linguistica.
La traduzione del Soggetto: notevolissima. La ripresa: straordinaria. La direzione degli interpreti non professionisti: eccellente.
Eppure il film non mi colpisce e, come me, non colpisce chi vive lontano da un villaggio della Bassa Baviera, più di quanto non colpirebbe un film sul tentativo di linciaggio in un villaggio indiano.

Werner Kliess, da "Film", n. 5, 1969


Il realismo di Jagdkzenen Fleischmann lo controlla, lasciando alle lunghe sequenze il ritmo che è loro proprio è anche la causa dei difetti e dei pericoli del film. A parte il fatto che non sempre riesce a riprodurre l'epos della vita contadina, lo spettatore è obbligato a credere che i tratti brutali e estranei dell'esistenza, del lavoro e dei sentimenti contadini siano metafore del male, i segnali intermittenti delle nostre infrastrutture psicologiche. Un maiale macellato, il cui sangue viene rimescolato e i cui intestini vengono gonfiati, non è più davanti a una macchina da presa, un semplice maiale che è stato macellato per ottenere della buona salciccia, della buona carne e dei buoni insaccati. Diventa il simbolo dell'abissale abbrutimento umano (anche la storia del cinema contribuisce a tale effetto). E l'abitudine contadina, a noi estranea, di rendere pubbliche, in modo aperto e brutale, le inimicizie, fa sì che la parabola scompaia interamente dietro la tranquillizzante affermazione che Fleischmann ama riproporre ovunque: sì, sì, questo succede in campagna. (...)
È un buon film, con scene perfette e spietate; il suo realismo è convincente. Ma se per un attimo soltanto si pensa all'inverosimile e forzata artificiosit` delle prime sequenze di Weekend di Godard, ci si rende conto che questo film ci colpisce e ci coinvolge assai di più. Forse il paragone è indelicato, ma vuol significare una cosa sola: le "scene di caccia in Bassa Baviera" sono un po' scene di una terra straniera.

Alf Brustellin, da "Süddeutsche Zeitung", 13 giugno 1969


Adesso la critica riflette dappertutto sulla differenza tra il villaggio e la citt`; sta nascendo una grande discussione sulla "provincia", che in realt` non dimostra altro che il provincialismo di chi discute. Infatti la cosa meno importante del film di Fleischmann è la Bassa Baviera, in cui Jagdszenen è casualmente ambientato. La Bassa Baviera è tanto esotica quanto lo sono i tavolacci dell'Hofbrauhauss di Monaco; i giapponesi, si sa, sono così strani a causa di quegli occhi incredibilmente a mandorla. Fleischmann purtroppo ha contribuito a questo fraintendimento generale facendo doppiare il film in una lingua spuria, ridicola per i bavaresi e incomprensibile ai nonbavaresi. I sottotitoli sarebbero stati più onesti. La colonna sonora di Jagdszenen è irritante e fastidiosa: contiene i rumori di un naturalismo in fuga da se stesso.
Il pregio del film è anche il suo limite principale: il naturalismo. Citiamo Chandler: "Si fanno più spesso lunghe passeggiate in campagna, e i personaggi cercano di non comportarsi come se avessero appena sostenuto un provino alla MetroGoldwynMayer". Anche gli attori di Fleischmann cercano di far così, e difficilmente li si distingue dagli abitanti di Unholzing, in provincia Landshut. Questi ultimi recitano se stessi, ma Fleischmann si è lasciato sfuggire la possibilit` di girare un moderno documentario:
ha fatto un documentario, per di più molto tradizionale, con un soggetto da film d'azione. (...)
E ciononostante è un film da vedere: ci mostra un villaggio tedesco, in modo confuso e inconsapevole, ma ce lo mostra. Il film è mutilato e deforme, tuttavia fa piazza pulita di tutti gli "Heimatfilme", di tutti i pascoli e degli splendori alpini, di tutte le foreste e di tutte le finestre con i vasi di fiori, dietro cui il cinema del nonno ha nascosto ciò che invece volevamo vedere: un villaggio tedesco. Alcuni sociologi svedesi ci hanno preparato un rapporto su un villaggio cinese; un americano ha fatto parlare in Messico "i figli di Sanchez"; lo "Junger Deutscher Film" è rimasto a Schwabing o è fuggito a Acapulco. Fleischmann per lo meno non ha fatto nulla di tutto ciò. Ha fatto parlare Unholzing e poi, purtroppo, l'ha doppiato.

Yaak Karsunke, da "Frankfurter Rundschau", 12 luglio 1969

Biografia

regista

Peter Fleischmann

Cast

& Credits

Regia: Peter Fleischmann.
Soggetto: dalla omonima pièce di Martin Sperr (1966).
Sceneggiatura: P. Fleischmann.
Assistente alla regia: Peter Kaiser.
Fotografia (35mm, b/n): Alain Derobe.
Assistente alla fotografia: Colin Mounier, Konrad Kotowsky.
Montaggio: Barbara Mondry, Jane Seitz.
Suono: Karl Heinz Frartz.
Scenografia: GiInther Neumann.
Costumi: Barbara Baum.
Interpreti: Martin Sperr (Abram), Angela Winkler (Hannelore), Else Quecke (Barbara), Michael Strixner (Georg), Maria Stadler (macellaia), Gunja Seiser (Maria), Johann Brunner (Hiasl), Hanna Schygulla (Paula), Renate Sandner (Zenta), Ernst Wagner (Volker), Johann Lang (Ernstl), Johann Fuchs (borgomastro), Harm Elwenspoek (parroco), Erika Wackernagel (moglie del borgomastro), Eva Berthold (insegnante), e gli abitanti di Unholzing, in Bassa Baviera.
Produzione: Rob Houwer Film, (Monaco).
Produttore: Rob Houwer.
Prima proiezione: 29/5/1969 a Landshut (Bassa Baviera).

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