2° FESTIVAL INTERNAZIONALE CINEMA GIOVANI
Retrospettiva - Nouvelle Vague
Le rideau cramoisi
di Alexandre Astruc
In una citt` di provincia francese nell'ottocento un giovane ufficiale è alloggiato presso una ricca famiglia borghese. Dopo un mese o due, la figlia, Albertine. torna a casa dal convento, e l'ufficiale è sbalordito e felice quando una sera sente la mano della ragazza sulla sua sotto la tavola da pranzo. Per qualche settimana lei non va oltre e l'ufficiale è incuriosito, deluso e risentito. Quindi, senza preavviso, lei compare alla porta della sua stanza. Da allora va da lui una notte si e una no. Lui è ancora sorpreso dalla sua strana condotta, ma lei risponde alle sue domande solo con abbracci appassionati. Alla fine, una notte, lei gli muore d'improvviso tra le braccia. Terrorizzato, lui tenta di evitare il disonore di farla trovare nel suo letto. Va dal suo comandante e gli racconta la storia. Il colonnello gli ordina di lasciare la citt` e si assume il compito di spiegare tutto ai genitori della ragazza.
R.R.
("Monthly Film Bulletin", n. 294, 1958)
All'origine d'un film c'è spesso un soggetto o un tema. Possono esserci anche delle immagini intraviste. Righe che si leggono come storie che si sognano. Nato dalla lettura di qualche pagina di Barbey d'Aurevilly, Le rideau cramoisi, racconto romantico divenuto film, mi si è sempre presentato come uno scorrere di immagini che si doveva cercare di fissare sulla pellicola.
Con Rideau cramoisi ho cercato di dimostrare che un film può essere letterario senza cessare di essere cinematografico. Io credo al potere di suggestione delle immagini, esattamente come a quello delle parole. In altri termini, non penso sia necessario speculare sulla "suspense", in cui le peripezie di sceneggiature ben congegnate devono toccare nel pubblico ciò che non chiede altro che di essere toccato. Gli spettatori che hanno decretato il trionfo di Vilar e dei suoi compagni hanno scoperto, grazie alle straordinarie messe in scena di Avignone e altre citt`, che il teatro è una cosa diversa da una buona pièce. Confidiamo che, allo stesso modo, comprendano che il cinema è una cosa diversa da una buona sceneggiatura.
AlexandreAstruc
("Cinéma", n. 12, 1956)
Io faccio iniziare la mia opera da Une vie… Le rideau è il film che amo meno. È anche vero che è stato il mio primo. Ed io preferisco sempre il mio ultimo film, poi, per ordine d'interesse decrescente, il penultimo ecc. Al Rideau cramoisi non rimprovero tanto l'apparente gratuit` dei movimenti di macchina - corrispondevano per me a cose ben precise -, quanto d'essere una mera trasposizione dalla letteratura al cinema.
Questo film, sapete, è nato in modo molto prosaico. Volevo fare il mio primo film in un'epoca in cui era molto difficile, per un giovane, debuttare nella regia. Bene, conoscevo un produttore di film d'arte, Dauman. E siccome non volevo fare un film d'arte né un documentario, cercai di convincerlo che si sarebbe potuto girare un mediometraggio di fiction, con degli attori, ad un prezzo ragionevole. Allora mi misi sistematicamente alla ricerca d'un racconto facile da adattare e che si prestasse al commento fuori campo, senza dialogo. In un primo tempo avevo pensato ad un racconto di Edgar Poe, Il pozzo e il pendolo, ma abbiamo dovuto rinunciarci: avrebbe richiesto una scenografia troppo costosa. Alla fine abbiamo ripiegato sul racconto di Barbey d'Aurevilly.
Se adesso dovessi rifarlo, toglierei il commento fuori campo. Qualche idea interessante, tuttavia, gliela concedo: il commento, ad esempio, non concorda mai con l'immagine. La precede, la chiama… (…)
Alexandre Astruc
("Cinéma", n. 65, 1962)
Ci sarebbe da parlare a lungo non sulla scenografia, che è un termine restrittivo, ma sul mondo in cui Astruc rinchiude i suoi personaggi: mondo desertico, ma, nel suo significato, più autentico del mondo reale. Mentre il luogo drammatico propriamente detto (la casa: sala da pranzo, camera, scala protesa verso pianerottoli inaccessibili, false profondit` degli specchi) vede dilatarsi le sue proporzioni, il mondo esterno, l'universo di secondo grado che inizia al di l` delle pareti, non avendo altra funzione che quella di rinchiudere la prima prigione in un'altra, infinita ma ancora più vuota, lo s'intravede solo raramente; e quando la cinepresa vi esce è sempre - tranne nella sequenza della fuga - per riportare il suo obiettivo verso l'"a porte chiuse" della tragedia: l'interno segreto della casa. Così le prigioni si deducono le une dalle altre come i tronconi d'una lunga veduta. Questo confinamento è brevemente ma esplicitamente indicato in due o tre occasioni: ripresa dall'esterno d'una delle finestre della sala da pranzo, coi vetri rigati di pioggia, attraverso la quale s'indovinano gli altri personaggi a tavola; breve sequenza nel giardino, di notte, col protagonista in agguato sotto la finestra dalla tenda scarlatta; immagine, dopo la morte di Albertine, dell'ufficiale prostrato, alla luce dell'alba, dietro i vetri appannati.
Così l'esilio di questi esseri in mezzo a se stessi trova una corrispondenza in tutto ciò che li circonda, e il cuore del film sta infinitamente meno nell'aneddoto, mero punto di partenza, che nel trattamento dei temi, indubbiamente la sua ricchezza più profonda: solitudine, noia, attesa, frustrazione, slanci di passione, morte, abbandono, panico, cioè di nuovo solitudine.
J.J. Richer,
("Cahiers du Cinéma", n. 21, 1953)
Questa connivenza, meglio ancora questa prestabilita armonia, la trovo realizzata nell'adattamento, ad opera di Alexandre Astruc, del Rideau cramoisi, il primo racconto della raccolta di Barbey d'Aurevilly Les diaboliques. Il susseguirsi delle scene, la distribuzione delle luci e delle ombre, la parte assegnata a ciò che si dice e a ciò che si fa, tutto obbedisce a una necessit` interna che comanda imperiosamente l'economia dell'opera. Ai momenti supremi di tensione drammatica corrispondono i momenti supremi di tensione estetica, che ci impongono con evidenza una situazione inusitata, singolare. La cinepresa va dritto all'essenziale, si rifiuta ad ogni immagine gratuita che spezzerebbe il rigore dello sviluppo. Esattamente come Barbey, col suo stile, evita felicemente tutto ciò che questa storia comporta di scabroso ed eccessivo, Astruc riscopre con delle immagini il progredire d'una attrazione carnale che nessun ostacolo potrebbe impedire: dubito che la litote, l'allusione e l'elisione abbiano mai goduto d'un potere maggiore. La parola interviene solo per evitare il rilassarsi del racconto, che dev'essere d'un getto unico, evitare i tempi morti e conservare, della durata anonima e solitaria del protagonista dell'avventura, solo gli istanti privilegiati e vissuti da lui, in tutta la loro fragilit` e fugacit`. Anche qui, il protagonista apparente non è il protagonista. Nel film di Astruc il protagonista vero è il tempo e, oltre il tempo, lo stesso Astruc, che si sforza di conquistare il tempo del cinema come tempo irriducibile alla coscienza ingenua, cioè come tempo specifico. Tutte le equivalenze plastiche di Barbey hanno questa funzione: riprodurre l'asse della durata proprio del racconto cinematografico. È falso quindi che Le rideau cramoisi, come non si sono risparmiati di dire certi critici, sacrifichi all'estetica del film muto, casomai è il contrario. Le rideau cramoisi è nel mediometraggio l'equivalente di Citizen Kane, del Corbeau, della Règle du jeu o di A nous la liberté, cioè un film parlato in cui la lingua ritrova la sua vera destinazione, che è di stabilire con l'immagine quello che Delacroix chiamava un "sistema di compensazione". Come in un quadro un certo volume si oppone a una certa linea per accentuarla o al contrario neutralizzarne gli effetti, la parola gioca nel cinema un ruolo identico. Deve mettere in valore o distruggere l'immagine senza mai parafrasarla. Questa verit`, che non senza arrossire ripetiamo qui, ben pochi cineasti l'hanno messa in pratica, ed è tanto peggio per il cinema.
J. Domarchi,
("Cahiers du Cinéma", n. 18, 1952)
Biografia
regista
Alexandre Astruc
FILMOGRAFIA
LE RIDEAU CRAMOISI (1952), UNE VIE (1957), LA PROIE POUR L'OMBRE (1960).
Cast
& Credits
Soggetto: da Diabolique di Barbey d'Aurevilly.
Fotografia: Eugen Shuftan.
Scenografia e costumi: Mayo.
Montaggio: Jean Mitry.
Musica: Jean-Jacques Grünenwald.
Interpreti e personaggi: Anouk Aimée (Albertine), Jean-Claude Pascal (l'ufficiale), Madeleine Garcia (la madre di Albertine), Jim Gerald (il padre di Albertine).
Produzione: Argos-Films e Como-Films.
Distribuzione: Agence générale de Distribution cinématographique.