Nella bidonville d'Abidjan, capitale della Costa d'Avorio (quando era colonia francese) seguiamo la vita e le speranze degli scaricatori soprannominati Lemmy Caution o Edward Robinson, dell'autista di tassi Tarzan, della prostituta Dorothy Lamour, ecc.
G. Sadoul
(Il cinema, Sansoni, Firenze 1968)
Non c'è etnologia senza sociologia. L'Africa si muoveva sotto i miei occhi e la semplice descrizione d'una cultura estranea alla mia andava a toccare, e non marginalmente, l'impatto tra questa cultura e la cultura occidentale, problemi dunque non più semplicemente inerenti alla cultura tradizionale. Lo si vedeva gi` nei Maitres fous: si tratta di persone che non si sono adattate alla nostra civilt` e hanno trovato per conto proprio un sistema all'interno della loro cultura tradizionale. È un primo passo per cercare di uscirne. Il problema di Moi, un noir è simile: se il protagonista, Robinson, invece di vivere in Costa d'Avorio fosse vissuto nel Ghana, avrebbe trovato un gioco più semplice di quello che consiste nell'affibbiarsi soprannomi cinematografici e portare continuamente in giro il suo mito per i sobborghi di Treicheville.
Robinson e i suoi compagni non hanno potuto far altro che trovare il modo di vivere ai margini cercando di ricostituire tutti i sabati e le domeniche una sorta di Eldorado mitico basato sulla boxe, il cinema, l'amore e i soldi. Non erano riusciti a trovare una vera soluzione compensativa come gli Hauka di Accra nei Maitres fous. Così, il film ha scatenato nel personaggio una sorta di gioco al rialzo che ha avuto per risultato una integrazione reciproca tra vita reale e cinema, il cui primo effetto è stato di far andare in prigione uno dei miei protagonisti. Contrariamente agli Hauka, che erano persone quasi anonime, i miei personaggi assumevano una personalit`, perché i loro problemi personali venivano fuori. Il film è stato girato interamente muto e l'ho proiettato agli attori; in quel momento hanno reagito in modo molto violento e il protagonista, in particolare, ha improvvisato un commento man mano che la proiezione andava avanti. Li ho davvero sentito che toccavo un fenomeno che usciva, come lei diceva prima, dall'etnologia per entrare nella psico-sociologia: c'era un personaggio che esponeva chi era. (…)
J. Rouch
("Cinéma", n. 72,1963)
La carriera di cineasta di Jean Rouch si sovrappone alla sua carriera di etnologo. La cosa, peraltro, iniziò nel modo più banale. Durante uno dei suoi viaggi in Africa, intrapresi a partire dal 1941, Jean Rouch ebbe l'idea di accompagnare i propri studi e le proprie osservazioni etnografiche con dei documenti fissati su pellicola, paragonabili - ma con quanta maggiore efficacia e precisione - ai rilievi topografici, cioè fotografici, che egli aveva usato fino ad allora. Nacquero così, a partire dal 1950 quei film di metraggio variabile dedicati a certi popoli del Niger, Songhais e Dogons. (…) A quel punto della sua carriera, Jean Rouch si interessava, più che allo studio di comunit` fossilizzate nelle proprie tradizioni millenarie, a quello dei contatti che alcune di quelle comunit` intrattenevano con il mondo moderno occidentale. Non a caso fini, nelle sue ultime opere, per studiare le migrazioni, per lo più stagionali, delle popolazioni dell'Alto-Volta, del Niger e del Sudan verso la costa.
Tale preoccupazione - strettamente scientifica - lo conduce a realizzare tre film che sono una sorta di testimonianza su quelle migrazioni e sui problemi di adattamento che esse sollevano. Jaguar racconta l'emigrazione di quattro giovani nigeriani verso il Ghana. Les maitres fous è uno studio sui riti religiosi adottati da certe comunit` negre trapiantate nelle grandi citt` dell'Africa europeizzata. Treichville (Moi, un noir), infine, racconta la vita di tre nigeriani venuti a cercare lavoro in citt`. Fermiamoci un istante sul modo in cui fu concepito e realizzato quest'ultimo film. Ci sono molti modi di pervenire a quella verit` documentaristica che abbiamo innanzi definito. Essa può essere il frutto dell'astuzia e quello della complicit`: dell'astuzia quando l'osservatore - il cineasta - registra il proprio documento all'insaputa di coloro che sono i suoi oggetti di studio; della complicit` quando il testimone informa preliminarmente delle sue intenzioni gli individui che osserva. Jean Rouch è andato più lontano ancora: non si è accontentato di informare i propri attori che li avrebbe filmati, ma ha fornito loro un canovaccio del film, canovaccio sufficientemente clastico perché essi potessero liberamente improvvisare. (…)Moi, un noir non è dunque né un film di finzione né un documentario: è l'uno e l'altro, o meglio, l'uno moltiplicato per l'altro.
A. Labarthe
(Essai sur le jeune cinéma français, La Terrain Vague, Paris 1960)
I nostri lettori sanno gi`, dagli estratti del commento pubblicati sul n. 90 dei «Cahiers», che con Moi, un noir (ex Treichville) Jean Rouch aggiunge un terzo episodio al suo immenso trittico nigeriano. Gli altri due erano costituiti da Jaguar (in realt`, il primo lungometraggio di Rouch, non ancora uscito a tutt'oggi) e Les fils de l'eau, composto da una serie di cortometraggi etnologici, che vanno da La circoncision a Les maitres fous.
Come Les cousins è il contrario di Le beau Serge, così in Moi, un noir Jean Rouch racconta una storia opposta a quella di Jaguar. Simile a un reporter di cinegiornale che filma Jayne Mansfield mentre scende dal Los Angeles-Parigi, o François Mitterand mentre esce dall'Elysée, Rouch filma le disavventure di un piccolo gruppo di nigeriani, venuti ingenuamente a cercar fortuna nella bella citt` di Abidjan; oh Abidjan delle lagune! dice teneramente la canzone.
Quanti vitelloni involontari abitano a Treichville, un quartiere indigeno cresciuto in qualche mese, come le cittadine dei western, che essi chiamano, scherzosamente, "la Chicago africana". Non c'è dunque da meravigliarsi se i personaggi di Moi, un noir si chiamano fra di loro Edward G. Robinson, Eddie Constantine, Lemmy Caution o Tarzan. Senza dimenticare Élite, P'tit Jules e Dorothy Lamour.
L'originalit` di Rouch è quella di aver fatto dei suoi attori dei personaggi. Attori nel senso più semplice del termine, del resto, per il solo fatto che sono filmati in azione e che Rouch si limita a filmare quest'azione dopo averla, come Rossellini, organizzata logicamente, nella misura del possibile. Ma appunto, diranno i seccatori, è possibile questo possibile? Lo vediamo subito. Uno degli attori, Edward G. Robinson, è figlio di un notabile di Niamey. È un "letterato", con i suoi due diplomi, che avrebbe potuto seguire le orme di Houphouet Boigny. Ma un bel giorno è stato spedito in Indocina. Al suo ritorno, la famiglia lo ha scacciato, perché una volta, gli dice il padre, se si perdeva la guerra si tornava morti. A questo punto cominciano i titoli di testa di Moi, un noir. Rouch si mette a seguire, in carrello avanti nei giorni di speranza e indietro in quelli di amarezza, il suo ex par` alla ricerca di ragazze, alla ricerca di soldi, alla ricerca: ecco la parola: Jean Rouch, moderno Balthazar Claës, non ha rubato il titolo del suo biglietto da visita: incaricato di ricerche per conto del Museo dell'uomo. Esiste una più bella definizione del cineasta? (…)
Tutto è chiaro ora. Fidarsi del caso vuol dire ascoltare delle voci. Come la Jeanne d'altri tempi, il nostro amico Jean se n'è andato con una macchina da presa a salvare, se non proprio la Francia, almeno il cinema francese. Una porta aperta sul cinema nuovo, dice il manifesto di Moi, un noir. È proprio vero. Rouch è importante come Stanislavskij perché, per il solo fatto di esistere, il cinema ha gi` come punto di partenza ciò che il regista russo cercava come punto d'arrivo. Più importante di Pirandello anche, perché spontaneamente ambizioso, e non spontaneo per calcolo, conic Visconti di La terra trema.
Certo, Moi, un noir è ancora lontano dal valere India. C'è in Jean Rouch un tono scherzoso che nuoce un po'alle sue intenzioni. Non che gli abitanti di Treichville non abbiano il diritto di infischiarsene di tutti; solo che c'è una certa facilit` da parte di Rouch nell'adattarsi a questa situazione. Un burlone può andare in fondo alle cose tanto quanto un altro, ma questo non gli impedisce d'essere severo con se stesso. Sono rimproveri del genere che bisogna fare a Jean Rouch, e non altri. Del resto egli lo sa. Sa che i suoi lungometraggi cominciano a non aver più nulla in comune con i piccoli reportage puramente etnologici. Sa che uscendo dalla sua crisalide d'artigiano è diventato un artista.
Quando, in Fallen angel, per non perdere di vista Linda Darnell che attraversa la sala di un ristorante, la macchina da presa corre talmente veloce fra i clienti che si vedono le mani degli assistenti prenderne due o tre per il collo e farli uscire di campo per lasciarla passare, la cosa mi piace. E quando Eddie Constantine, agente federale americano, discute il colpo con P'tit Jules con uno sconvolgente fiotto di parole stile Bagatelles pour un massacre e Rouch accovacciato accanto ad essi, con la macchina da presa a spalla, si alza lentamente e si solleva alla Anthony Mann, con le ginocchia a guisa di gru, per inquadrare Abidjan, o Abidjan delle lagune, dall'altra parte del fiume, anche questo mi piace. Mi piace il movimento di macchina acquatico di Preminger perché mi d` l'impressione del "diretto" e sento che è questa, per lui, la maniera di andare in fondo alle cose. E mi piacciono gli effetti di Rouch perché difendono la stessa causa o, meglio, io difendo la sua causa perché essa raggiunge gli stessi effetti.
A Rouch del resto interessa ben poco tutto quello che si potrebbe ancora dire sul suo film. Lui non ascolta mai. Non è venuto a prendere il suo "Prix Delluc" a Parigi. Penetra più che mai nel cuore dell'Africa, e gira in questo momento l'odissea di qualche Tartarino della savana a caccia di leoni.
J.-L. Godard
(Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano 1981)
Biografia
regista
Jean Rouch
Jean Rouch nasce il 31 maggio 1917 a Parigi. Si laurea in Lettere, in Ingegneria civile e poi si diploma all'istituto di Etnologia. Durante la guerra conduce inchieste etnografiche in Nigeria e in Senegal. Nel 1946-47 effettua la discesa del Niger in piroga, in compagnia di Jean Sauvy e di Pierre Bonty. Nel frattempo con la sua macchina da presa a 16mm riprende cerimonie e riti, realizzando un affascinante documento di altissimo valore etnografico e registrando la trasformazione di un continente dal colonialismo all'indipendenza. Au pays des images noirs (1947) è il primo di una lunga serie di cortometraggi, realizzati con la tecnica del cinéma-direct. Tale tecnica prevedeva l'uso della macchina a mano e della registrazione del suono in presa diretta al fine di cogliere il reale nella sua immediatezza. Tale scelta, nella sua smitizzazione dello strumento tecnico - che dimostra la concreta possibilità di realizzare un film senza sottostare ai limiti di una tecnologia pesante e di un'equipe numerosa - ha avuto una grande influenza sulla Nouvelle Vague. Col suo metodo Rouch realizza altri film importanti come Moi un Noir (1957) sui giovani che affluiscono a Treichville (Costa d'Avorio) in cerca di lavoro, La pyramide humaine (1958), sui rapporti tra studenti neri e bianchi al liceo di Abidjan, Chronique d'un été (1960), un film sui parigini, girato con Edgar Morin, Chasse au lion à l'arche (1964) su un particolare tipo di caccia in Costa d'Avorio, e Gare du Nord, un episodio di Paris vu par (1966) filmato in tempo reale, che racconta di un abbandono, di un incontro, di una corsa lungo Parigi e di un suicidio. Il metodo di Rouch non va assolutamente confuso col concetto della "vita colta all'improvviso". Rouch provoca con la macchina da presa i protagonisti dei suoi film, li costringe a farsi personaggi e a interpretare storie da loro stessi a volte inventate. In questo modo finzione e improvvisazione si trasformano in strumenti per arrivare alla "verità". Di qui anche il rifiuto del montaggio tradizionale, la trascuratezza formale, la preminenza dei contenuti. Nel 1984 presenta alla Mostra di Venezia Dyonisos: ironica rappresentazione della realtà di un antropologo diviso tra civiltà industriale e mondi primitivi. Dal 1947 a oggi Rouch ha girato più di centocinquanta film.
Cast
& Credits
Montaggio: Marie Joseph Yoyotte, Catherine Dourgnon.
Musica: orchestra diretta da Yopi Joseph Degré.
Interpreti: Oumarou Ganda, Petit Touré, Alassane Meiga, Amadou Demaba, Seydou Guede, Karidyo Faoudou, M.lle Gambi.
Produzione: Films de la Pléiade.