Nazione: URSS
Anno: 1965
Durata: 97'


In un villaggio dei Carpazi, agli inizi del '900. Una comunit` di montanari vive secondo gli usi antichi. Il giovane Ivan, un giorno, si vede cadere addosso un albero: il fratello lo salva ma paga il gesto con la vita. Poco dopo anche il padre muore, ucciso nello scontro con un vicino, per una banale lite. La madre e Ivan restano soli, in miseria e disperati. Ivan ama Maricka, che è la figlia dell'uomo che ha ammazzato suo padre: un odio profondo divide le due famiglie. Ivan e Maricka crescono insieme e, nonostante l'opposizione dei parenti, decidono di sposarsi. Ivan, per poter guadagnare qualcosa, è ora al servizio di un proprietario e fa il pastore sui monti. Resta a lungo fuori del villaggio. Maricka si avvia per raggiungerlo in montagna. Attraversa luoghi impervi e annega in un fiume, trascinata dalla corrente impetuosa. Ivan non sa darsi pace, fino a che non incontra Palan'ja, una ragazza sensuale che ha sempre avuto simpatia per lui. La sposa senza amarla. Ma Palan'ja comprende che nulla mai potr` fagli dimenticare Maricka. E a poco a poco si lascia irretire da Jura, uno che al villaggio si vanta di possedere poteri magici. Se ne innamora e tradisce con lui Ivan. Il giovane affronta il "mago", ma ha la peggio. Colpito dal fendente di una scure, va a morire nel bosco, invocando l'adorata Maricka.

G.D.F., in Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario Universale del cinema, Ed. Riuniti, Roma, 1984, p. 1002



"La vita dell'opera poetica spazia dalla visione al riconoscimento, dalla poesia alla prosa, dal concreto all'astratto" (Sklovskij, "L'arte come procedimento", 1917). È proprio sotto il segno di questo movimento, di un "dato" che il cineasta si accontenta di captare, al quale poi fa violenza e a cui ordina bruscamente di significare, che si colloca Le ombre degli avi dimenticati. Così, filmando delle nozze contadine, Paradzanov ricorre a un lungo carrello che parte a una velocit` tale che ai nostri occhi appare solo un'orgia di colori vivi, chiusi in forme dai contorni imprecisi, che poi si stabilizza all'improvviso per mostrarci, solo per qualche secondo, come un'offerta concessa al prezzo di un supremo sforzo, delle piccole scene di vita rurale, prima di ripartire ancora più bella. L` dove il pittore rende d'insieme la visione totale della realt`, il cineasta scompone il movimento e, facendoci passare dalla "visione" al "riconoscimento", rivela l'opera sia nella sua genesi che nel suo esito.
Lo sforzo di Paradzanov è in questa ricerca che suppone l'esistenza di un punto dove gli avvenimenti appaiono nella loro verit` essenziale, in breve nella ricerca della famosa "giusta visione". Da ciò una costruzione molto geometrica (dieci quadri essi stessi divisi in capitoli), poiché si tratta di condensare tutti gli elementi al massimo, di procedere a una riduzione per arrivare ad una sorta di indistruttibile quintessenza che è il soggetto stesso del film, vera calamita attorno alla quale tutta l'opera si ordina. Il campo investigativo è nettamente limitato: sia esso un luogo chiuso, geometricamente disegnato, sia, in esterni, una porzione di spazio finita poiché sempre rinchiusa da un ostacolo naturale (fiume, foresta, ecc.). All'interno di questa "scena", si gioca un rituale concretizzato attraverso un'alchimia gestuale le cui cause sono certo profondamente radicate nel costume, ma che rinvia soprattutto a un'armonia più segreta. Poiché Paradzanov non s'interessa solamente a questi dati scientificamente definibili che non portano che alla ricostruzione di un mondo raggelato, immutabile, a immagine della morte; egli ricerca il movimento stesso di questa contingenza. Tutto il film sembra allora avvicinarsi a uno schematismo che porterebbe a una pura astrazione: Palan'ja che simbolizza il "materiale" di fronte a Ivan lo "spirituale", ma ciò è per meglio oltrepassare quest'antagonismo stabilendo un collegamento fra questi due poli, che è in definitiva il movimento stesso della creazione cinematografica, che va dalla finzione più totale alla realt` più nuda per giungere a una visione totalitaria del mondo. L'opera si gioca dunque a questi due livelli: subito l'accertamento dell'etnografo sui kolkhoz all'inizio del ventesimo secolo, poi la distanza di fronte a questo atteggiamento che non determina la scomparsa del ricercatore ma, al contrario, la volont` di andare oltre e di restituire tutto un mondo nel suo stesso divenire. "L'arte è un modo di provare il divenire dell'oggetto. Ciò che è gi` divenuto non ha importanza per l'arte" (Sklovskij). L'estetica di Paradzanov si trova allora giustificata: i colpi di zoom, la cinepresa che cade dall'alto di un albero, la cinepresa che sanguina sono le manifestazioni concrete di un cinema che nel corpo a corpo con il mondo corre dei rischi e può da un momento all'altro, se non è capace di sostenere questo ritmo che è quello della vita stessa, dissolversi vinto dalla materia di cui tentava d'appropriarsi.

Così il film non sar` mai pleonastico, nonostante il numero sorprendente di trucchi che lo costellano: i colori virati in marrone (solitudine di Ivan) o in rosso (morte di Ivan), mascherini, uso del negativo, arresto sull'immagine ecc. Questi bruschi cambiamenti si iscrivono nella continuit` dello spazio scenico, conferendogli una nuova densit` che questo non aveva smesso di sollecitare: sono i prolungamenti naturali delle scene, il resto del loro slancio che non si spegne che per mancanza di energia, lasciandoci un'impressione di incompiutezza, d'attesa di qualche evento definitivamente, perpetuamente rinviato. Così il film non termina sullo slancio lirico della morte di Ivan ma continua con una "piet`", rigorosa ricostruzione di una sepoltura nei kolkhoz; l'opera rifiuta ogni lirismo integrandolo nella sua struttura. Non c'è dunque un racconto in prosa che sarebbe la fedele cronaca della vita del kolkhoz, attraverso la storia di Ivan e Maricka, essa stessa pretesto di grande spiegamento lirico. C'è la sua incarnazione. La vita di Ivan non è una maschera destinata a valorizzare il racconto in prosa; c'è al contrario una stretta osmosi, i due piani dell'opera si valorizzano a vicenda, assorbiti da una corrente unificatrice che trasforma tutte le manifestazioni del reale. Bisogna arrivare alla "coscienza della forma ottenuta grazie alla sua deformazione" (Tomasevskij). Paradzanov non crea oggetti prosaici o poetici, essi lo divengono, e, grazie al perpetuo passaggio da un "cinema di prosa" a un "cinema di poesia", il film ci racconta la storia di questo stesso mutamento. Ci si ritrova dunque in presenza di un cinema sperimentale, ma che sbocca nella sua ricerca in un autentico rigore classico. L'emozione nasce così dalla nostra presa di coscienza di questo difficile cammino, che è reso sensibile attraverso una sorta di gioia di filmare, un piacere fisico nell'afferrare il mondo, a cui Parac12anov sa farci partecipare. Nessun dubbio che lui ama filmare le steppe dei Carpazi quanto Mann le praterie dell'Ovest, tant'è vero che Parad±anov rappresenta l'ultimo esempio di un tempo definitivamente concluso: quello dei registi felici.

Sylvain Godet, Le dernier cinéaste heureux, "Cahiers du Cinéma", n. 178, 1966

Biografia

regista

Sergej Parajanov

Sergei Parajanov (Tbilisi, Georgia, 1924-1990), di origine armena, nel 1945 si iscrive al Vgik, l’Istituto cinematografico statale di Mosca. Qui diventa allievo di Dovženko, che influenzerà i suoi primi film, tra cui Rapsodia ucraina (1961) e Il fiore sulla pietra (1962). Il 1964 segna un punto di svolta nella sua carriera: con Le ombre degli avi dimenticati abbandona infatti il realismo socialista a favore di una ricerca iconografica e folclorica che sfocia, nel 1968, in Il colore del melograno. Ostracizzato dalle autorità sovietiche per le sue idee artistiche e personali, Parajanov vede i suoi film bloccati dalla censura e viene infine condannato ai lavori forzati. Liberato nel 1979, dirige ancora La leggenda della fortezza di Suram (1984) e Asik Kerib - Storia di un ashugh innamorato (1988), prima di morire nel 1990.

FILMOGRAFIA

Moldavskaja skazka (1951), Andries (1954), Zolotye ruki (1957), Dumka (1957), Natalya Ushvij (1957), Pervyj paren (1959), Ukrainskaya rapsodiya (Rapsodia ucraina, 1961), Tsvetok na kamne (Il fiore sulla pietra, 1962), Tini zabutykh predkiv (Le ombre degli avi dimenticati, 1964), Kivski Freski (cm, 1966), Hakob Hovnatanyan (cm, doc., 1967), Sayat Nova (Il colore del melograno, 1968), Return to Life (Il segno del tempo, 1980), Ambavi Suramis tsikhitsa (La leggenda della fortezza di Suram, 1984), Arabeskebi Pirosmanis temaze (1985), Ašik Kerib (Asik Kerib - Storia di un ashugh innamorato, 1988).

Cast

& Credits

Regia: Sergej Paradzanov.
Soggetto: da un racconto di Michail Kociubinskij.
Sceneggiatura: Ivan Cendej, Sergej Paradzanov.
Fotografia: Jurij Venko.
Musica: Miroslav Skorik.
Scenografia: G. Jakutovie, M. Rokovskij, L. Bajkova, V. Sikina.
Montaggio: M. Ponomarenko.
Interpreti e personaggi: Ivan Mikolajcuk (Ivan), Larisa Kadocnikova (Maricka), Tat'jana Bestaeva (Palan'ja), Spartak Bagasvili (Jura, lo stregone), Nikolaj Grin'ko (pastore), Leonid Engibarov (Miko, il muto).
Produzione: Studi Aleksandr Dovzenko (Kiev).
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