Nazione: Italia
Anno: 1948
Durata: 93'


Un operaio disoccupato viene assunto come attacchino municipale a condizione che possa disporre di una bicicletta; egli per ritirare al monte di piet` il suo velocipede, impegna le lenzuola del letto matrimoniale. La mattina successiva prende servizio, ma un ragazzaccio gli ruba la preziosa bicicletta. Disperato, l'operaio denuncia il furto al Commissariato, ma qui gli danno poche speranze di recuperarla. Solo un amico spazzino cerca di aiutarlo. Dopo vane ricerche riesce a ritrovare il ladro e si d` ad inseguirlo, sempre in compagnia del figlio, per tutta Roma. Raggiunto il ragazzaccio fin nella sua casa è costretto ad allontanarsi per l'ostilit` degli abitanti del rione. Esasperato, tanta di rubare a sua volta una bicicletta incustodita, ma, inseguito, viene subito preso; solo il pianto del figlio Bruno lo salva dall'arresto. Senza più ormai alcuna speranza di rintracciare la bicicletta, padre e figlio stanchi ed avviliti, si avviano verso casa, tenendosi per mano.

Il Neorealismo Italiano - Documentazioni, Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, 1951


Gli interpreti li trovammo in un modo avventuroso. Il grande problema fu il bambino. Me ne portarono a centinaia: o erano bellini, romantici, lisciati, o erano incapaci. A un tratto nella fila dei genitori, vidi un operaio che teneva il figlioletto per mano. Gli feci segno di avanzare, lui venne innanzi esitante, sospingendo il bambino come in un piatto e sorridendo pieno di malinconica speranza. "No", gli dissi, "sei tu che mi interessi, non il bambino". Era Lamberto Maggiorani. Gli feci subito il provino; e come si muoveva, come si sedeva, come muoveva le mani, piene di calli, mani di operaio, non di attore, tutto in lui era perfetto... Mi feci promettere che dopo il film non avrebbe più pensato al cinema, sarebbe ritornato al suo lavoro. Mantenne la parola con onest`, ma poi ci furono i licenziamenti alla Breda, si trovò disoccupato e al cinema ritornò come all'ultimo rifugio. Intanto però il bambino non si trovava. Disperato, decisi di cominciare ugualmente il film. Iniziai con la scena di Maggiorani che va in cerca dell'amico che lo aiuti a ritrovare la bicicletta. Si girava in quella specie di teatrino da dopolavoro. Stavo dicendo qualcosa a Maggiorani, quando mi volto infastidito dai curiosi che mi si affollavano intorno e vedo uno strano bambino con una faccia tonda, e un nasone buffo, e stupendi occhi vivissimi, Enzo Stajola. "Questo me l'ha mandato San Gennaro", pensai.

Vittorio De Sica in L'avventurosa storia del cinema italiano, a cura di F. Faldini, G. Fofi, Feltrinelli, Milano 1979


L'aneddoto è debole, specie alla partenza: una bicicletta di terza mano non è poi tanto difficile da ottenere in Italia. Superato il piccolo impaccio iniziale, il racconto corre via geniale e felice. È un capolavoro fatto di nulla, tra il primo Clair e il secondo Chaplin, pieno di delicate osservazioni d'ambiente, di trovate, d'atmosfera; un'elegia nata sotto il segno della grazia, e che sar` difficile ripetere. Il segno della fatalit` di Ladri di biciclette è poi questo: che non si riesce a immaginare interpreti diversi da quelli, non di professione, che De Sica ha scelto e educato con innegabile pazienza. E quel tanto di "letterario" che è dato scorgere in cotesto film (la scena della pioggia improvvisa coi preti stranieri; l'errare del padre e del figlio per la nemica citt`; un Odisseo e un Telemaco che conoscono l'"Ulysses" di Joyce, ma lo correggono con Gozzano), è mirabilmente dissolto nel dono stilistico, in un'alta, sempre presente e controllata qualit` narrativa.

Pietro Bianchi, L'occhio del cinema, Garzanti, Milano 1957

Antonio Alecci di Giorgio, di anni 24, ha tentato, alle ore 9 di venerdì 21 gennaio, in corso Vercelli, di rubare la bicicletta di un commerciante. Raggiunto, percosso a sangue dalla folla accorsa, è stato consegnato agli agenti. La sera di quel medesimo giorno la folla dell'Odeon aveva pagato due milioni e mezzo di lire per vedere il film di De Sica e commuoversene. La vita, evidentemente, non imita, sempre, l'arte. I poveri straziano spesso i poveri e si fanno sempre straziare dai ricchi. Le cose danno torto alla morale della piet` e non solo in questa occasione.
Perché questa, della piet`, è la prima e più appariscente "morale" del film. Noi che tante volte siamo stati tentati di discorrere di quel capitale specchio del costume che è il cinema e non l'abbiamo fatto per non ricamare variazioni letterarie su di un mezzo espressivo la cui struttura tecnica ci è quasi sconosciuta, non parleremmo di questo film se non fossimo convinti che Ladri di biciclette è un documento d importanza eccezionale per la cultura italiana. Non inganni la sua apparente somiglianza con le altre pellicole del cosiddetto "realismo" italiano. Della loro poetica conosciamo l'importanza e i diseguali risultati, conosciamo i pericoli, che sono quelli del dialetto e dei tiepidi sentimenti che il dialetto còccola, quelli del populismo e della sua ovvia retorica; i pericoli di chi vuol rifare, a distanza di mezzo secolo, il verismo proletario e umanitario. E i meriti conosciamo, che son propriamente documentari e morali, come quelli della commedia di costume. Ladri di biciclette partecipa di tutto questo: e del populismo e dei sentimenti dialettali e del moralismo; ma, per felicit` d'arte, leggerezza di mano o per dir meglio per il fatto d'avere ben altre e più energiche preoccupazioni, risolve in modo egregio queste minori istanze, per chiudersi in un modo così curioso, così propriamente assurdo e paradossale nella sua semplicit`, che il pubblico ne esce, senza voler vedere fino in fondo il senso del film o contentandosi (come diremo) di una delle due soluzioni naturali. Il disoccupato Ricci, senza bicicletta, col suo bambino per mano, cammina mortalmente abbattuto e stanco; a casa, guarder` negli occhi la moglie, dormir` nel letto senza lenzuola, eccetera. Non è soltanto un finisce male; è, peggio, un non finisce.
D'altronde, cosa potrebbe cercare di diverso il pubblico? Con gli occhi viola e il sapore del sangue in bocca, Antonio Alecci cerca di prender sonno sulla sua prima alba di carcerato. Migliaia di operai minacciati di fame scendono verso i comizi. Lucchetti e catene assicurano, nei portoni, le biciclette. La Celere sorveglia. La societ` è pronta a posare il piede sulle sirene antifurto. [...].
Quale è dunque questa contraddizione? Quando il disoccupato Ricci, nel film, tentato il furto, è rilasciato dalla burbera piet` del derubato, noi sentiamo che il film tocca il suo culmine di pathos cattolico. Chi ricorda più il luterano non posse non peccare? Il tragico diventa, come si usa dire, "umano". Ricci ha avuto piet` della più buia miseria del giovinastro che gli aveva rubato la bicicletta; ed ecco, ora che è lui ad esser ladro, a "cadere", altri gli restituisce, nel giro del medesimo sole, la piet` donata. E come il primo era stato costretto a confessarsi, tacitamente colpevole sotto lo sguardo di sua madre, così sar` per Ricci, sul finire del film di fronte a suo figlio. Un mesto equilibrio è ristabilito. La morale della piet` sembra trionfare. Coloro che del cristianesimo o del cattolicesimo non sentono ormai viva che quella morale di piet` sono serviti. D'altronde il critico del "Corriere" tiene ad avvertire i lettori che il film non contiene nessuna particolare polemica sociale o di classe. I maggiori di anni sedici sono avvisati; possono entrare tranquillamente all'Odeon. [...].
Ma se questo spiega il successo fra i democristiani non sagrestani (bisogna pur saper sorridere della Conferenza di San Vincenzo, è vero, reverendo?) e in genere fra la gente disposta ai buoni sentimenti, come si spiega l'entusiasmo comunista, la parola d'ordine trasmessa alle sezioni, la simpatia unanime? La ragione si è che, dal punto di vista di una analisi marxista, il racconto è coerente. Un governo che impiega la polizia solo per reprimere i comizi; che lascia fiorire il mercato nero; che affama i disoccupati. Una organizzazione religiosa di santocchi e di baciapile benefici. Il popolo tra il bordello, il furto, la camorra. Su tutto questo un uomo che ha il viso del reduce di tutte le guerre, che ha tuttavia fede e amore nell'esistenza, nel sole, nel vino, che, posto di fronte al Lumpenproletariat di Trastevere, misura la propria superiorit` di abitante in un rione dove una cellula operaia si riunisce, a sera, nel sottosuolo; che ha una tuta. Umanit` avvilita, ma non piegata del tutto. La conclusione è l'uscita dalla legge. La morale della Celere e del Papa salta in aria. In fondo alla strada dove scende la sera romana, fra la folla che si è ubriacata di falso sport negli stadi del fascismo, fra i monumenti della Roma dei padroni, Ricci, dopo le lacrime, trover` non più la rivolta anarchica, ma la coscienza che bisogna "fare qualcosa in comune", far qualcosa che vada oltre la bicicletta e oltre la legge, rifare la legge perché nessuno debba più rubare. Allo spettatore si dice: concludi, anche su di te si pronuncia un giudizio.
Queste le due soluzioni contraddittorie. Ebbene a noi sembra che mai, in questi anni, la cultura italiana abbia espresso una creatura d'arte e di verit` che realmente vivesse questa contraddizione che è quella presente del popolo italiano. Ci era stato sempre parlato in un senso o nell'altro, di questi o di quelli. Le formule cristianosociali, cristiano-marxiste tentavano inutilmente sul piano filosofico e politico quella unit` che è il disoccupato Ricci. Questa verit` di De Sica, non potremo dimenticarla più: esistono, non foss'altro che tra i ladri di biciclette, uomini con la stampa di Cristo in viso e in cuore che vogliono giustizia sulla terra e violenza contro i mercanti del tempio. Uomini che vivono una contraddizione e la risolvono in sé in una zona dove i filosofi non giungono; uomini che salvano, davvero l'oggi nel domani (quel che è salvabile, almeno). Noè di un'Europa sommersa. Figure di un popolo tenacemente cristiano che stoltezza di pastori ha portato per secoli soltanto alle lacrime e alla vergogna e alla cattiva coscienza.
Che continua ad onorare la piet` anche tra le lacrime dell'ingiustizia subita. Questo è il nodo che strangola l'Italia: noi non ne vedremo la soluzione. Ma il viso del disoccupato Ricci sotto le percosse, quel viso indurito e pallido, ci garantisce che quel nodo sar` tagliato.

Franco Fortini, "L'Avanti!", 30 gennaio 1949


Ladri di biciclette non è il capolavoro del neorealismo, perché negli stessi mesi Visconti termina La terra trema. Ma ne è di gran lunga il messaggero più famoso in giro per il mondo. È il neorealismo postbellico nel pieno delle sue istanze, con pregi e i difetti che lo rendono oggi "storico" più di Assunta Spina. Scrupolo nell'avvicinamento all'uomo, avvertito legame fra individuo e societ`, ripulsa del romanzo, eco diretta delle problematiche del giorno, con stile, argomenti, testimonianze dal vero che non temono di apparire "scandalose". La cosiddetta "piccola psicologia" di De Sica produce due personaggi zavattinianamente perfetti, ma più aspri del solito, perché nella lineare vicenda, apparentemente aperta, non c'è uscita. Altro che De Sica crepuscolare: qui c'è di nuovo la notte. Negato allo spessore tragico, che è positivo, il regista sorridente non nasconde il suo pessimismo, che è negativo (una distinzione fatta, se non erriamo, da Pasolini). Ma la sua voce va ascoltata anche così perché De Sica, tra i registi del dopoguerra italiano, è il primo a sentire e a comunicarci che molte cose non sono cambiate, che la differenza sta solo nella libert` di dire che non sono cambiate. In fondo al film, e ad onta di certe dichiarazioni in contrario dello stesso regista, c'è questo: che l'Italia del 1948 è il paese delle biciclette, ma Ricci non avr` la sua bicicletta; come dieci anni prima l'Italia era la patria dei telefoni bianchi, ma la gente non aveva telefono.

Tino Ranieri, in Il neorealismo cinematografico italiano, a cura di Lino Micciché, Marsilio, Venezia 1975

Biografia

regista

Vittorio De Sica

Vittorio De Sica (Sora, Frosinone, 1901 - Neully-sur-Seine, Nanterre, Francia, 1974) ha cominciato a esibirsi da ragazzino come attore dilettante, diventando un vero e proprio divo negli anni Trenta grazie soprattutto a film di Mario Camerini come Gli uomini, che mascalzoni..., Il signor Max e I grandi magazzini. Pur proseguendo nella carriera di attore, ha intrapreso anche il lavoro di regista, esordendo nel 1940 con Rose scarlatte. Si è imposto quindi tra i protagonisti assoluti del neorealismo con film come Sciuscià o Ladri di biciclette (entrambi premiati con l’Oscar), continuando a realizzare opere di grande successo come La ciociara, Ieri, oggi, domani e Il giardino dei Finzi Contini.

FILMOGRAFIA

Rose scarlatte (coregia/codirector Giuseppe Amato, mm, 1940), Maddalena... zero in condotta (1940), Teresa Venerdì (1941), I bambini ci guardano (1943), Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951), Umberto D. (1952), L’oro di Napoli (1954), Il tetto (1956), La ciociara (1960), Il giudizio universale (1961), Boccaccio ’70 (ep. La riffa, cm, 1962), Il boom (1963), Ieri, oggi, domani, (1963), Matrimonio all’italiana, (1964), Le streghe (ep. Una sera come le altre, cm, 1967), Il giardino dei Finzi Contini (1970), Lo chiameremo Andrea (1972), Una breve vacanza (1973), Il viaggio (1974).

Cast

& Credits

Regia: Vittorio De Sica.
Soggetto: Cesare Zavattini, sullo spunto offerto dal romanzo di Luigi Bartolini.
Sceneggiatura: Cesare Zavattini, Vittorio De Sica, Suso Cecchi D'Amico, Oreste Biancoli, Adolfo Franci, Gherardo Gherardi, Gerardo Guerrieri.
Fotografia: Carlo Montuori.
Scenogratia: Antonino Traverso.
Musica: Alessandro Cicognini.
Montaggio: Eraldo Da Roma.
Interpreti e personaggi: Lamberto Maggiorani (Antonio Ricci), Enzo Stajola (Bruno, suo figlio), Lianella Carell (Maria Ricci), Elena Altieri (la patronessa di beneficenza), Giulio Saltamerenda (Baiocco), Vittorio Antonucci (il ladro), Giulio Chiari, Michele Sakara, Fausto Guerzoni, Carlo Jachino, Massimo Randisi, Umberto Spadaro, Ida Bracci Dorati (la santona), Memmo Carotenuto, Nando Bruno.
Produzione: Vittorio De Sica per PDS.
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