Nazione: Francia
Anno: 1960
Durata: 91'


La prima classe al Liceo di Abidjan. Due file di banchi. Da una parte gli africani; dall'altra gli europei. Non c'è molto razzismo ad Abidjan. Soltanto ignoranza. Usciti dalla classe i due gruppi continuano la loro vita, una vita separata. Per i Bianchi c'è la "banda". Vanno in piscina, si ritrovano al caffè, come i liceali e gli studenti di tutto il mondo. I Neri, invece, vivono a Treichville, nel luogo della loro infanzia.
Nadine è appena arrivata da Parigi. Non riesce a capire quest'ignoranza. Ne parla alla "banda". JeanClaude e Alain sono d'accordo con lei. Perché non mescolarsi con i compagni Neri?

R. Bellour
("Cinéma", n. 57, 1961)


E.F.: La Pyramide Humaine è il tuo terzo lungometraggio, girato a Abidjan nel 1958.
J.R.: Dopo Moi un noir, accusato di aver rivolto la mia attenzione esclusivamente al proletariato, ho deciso di girare un nuovo film nello stesso luogo, Abidjan, ma scegliendo questa volta la giovane élite del luogo: una prima classe del liceo di Cocodi. Disponevo di una cinepresa elettrica, quindi di una maggiore autonomia. Ho iniziato a girare le scene che si svolgono fuori della scuola durante le vacanze. E sotto i miei occhi sono successe cose incredibili: i giovani, bianchi e neri, scoprivano all'improvviso l'apartheid dell'Africa del Sud, il razzismo; cominciavano a porsi delle domande su chi erano, sulle loro relazioni in classe, sulla loro identit`; il film era una vera provocazione. Le riprese della seconda parte del film, le scene in classe, esigevano il suono sincronizzato, dunque, in quell'epoca, materiale molto pesante e una grossa équipe per riprendere. P stata la prima volta che ho girato col suono sincronizzato e ho scoperto le difficolt` del dialogo c del suono in presa diretta.

E.F.: È interessante vedere come, ogni volta cheti trovi di fronte a una difficolt` di ordine tecnico, reagisci in maniera creativa.
J.K: Per la prima volta ho condiviso le riprese con degli operatori, e ho scoperto che le immagini ottenute erano diverse. Certo, ero li, ma non ero il mio primo spettatore. I ragazzi erano talmente presi dal film che la situazione era terribile. Ad esempio la scena dell'annegamento di uno degli attori, è risultata un misto di realt` c di finzione tanto che mi sono chiesto se non ero andato troppo in l`. Questo film è stato per me molto importante: ho capito che non avrei potuto continuare a girare con quella tecnica, se ciò mi obbligava ogni volta alla presenza di quattro tecnici.

Jean Rouch
(in AA.VV., Jean Rouch, Ministère des Affaires Etrangères, Paris 1981)


Il cinema si dimostra filmando. Jean Rouch filma e, anche suo malgrado, i suoi film aprono nuovi orizzonti per il cinema. Chiunque si ponga delle domande sulla settima arte non può restare indifferente alla Pyramide Humaine.
Ecco perché. Jean Rouch, etnologo di professione, è alla ricerca d'un nuovo umanesimo. Per accedere all'uomo, il cinema gli sembra lo strumento ideale, l'unico possibile, della nostra epoca. Resta da trovare il metodo che gli permetta di raggiungere in pieno il suo scopo. Il documentario puro e semplice, alla maniera di Flaherty, in cui l'arte ha la meglio sull'uomo, non va bene: Rouch non ammette un'idea a priori dell'uomo. Bisogna che l'uomo si sveli da sé. Da qui nasce l'idea di ricorrere allo psicodramma. Si sa in cosa consista: si tratta di usare l'estremo potere della finzione. Si chiede a un individuo di mettersi nella pelle del personaggio che vorrebbe essere. La finzione fa venir fuori il suo vero essere. Il generale Della Rovere di Rossellini o Il grande impostore di Mulligan facevano dello psicodramma senza saperlo. E certi gruppi umani, come Les Maitresjbus, filmati dallo stesso Jean Rouch, s'impegnano in vere sedute collettive di psicodramma per ritrovare il loro equilibrio.
È questa esperienza collettiva che Rouch tenta di suscitare di nuovo nella Pyramide Humaine. Riunisce separatamente i gruppi di studenti bianchi e neri del liceo di Abidjan e propone loro questo gioco: tenteranno, per la durata d'un anno scolastico, di frequentarsi e conoscersi per scoprire fino a che punto il loro reciproco razzismo sia fondato. La cinepresa resta assolutamente passiva e neutra. Si limita a registrare, senza alcuna ricerca di effetti, le reazioni individuali alla situazione così creatasi e l'evoluzione dei rapporti interumani e interrazziali.
La Pyramide Humaine ripropone dunque al cinema tutto il problema dell'attore e soprattutto della direzione degli attori, uno dei fondamenti della regia. Infatti tutti gli sforzi della regia, in questi ultimi anni, tendono a cogliere gli individui sempre più intimamente. E questo vale per Lang come per Mizogushi o Losey, Preminger, Walsh o Nicholas Ray. La soluzione proposta da Rouch si rivela dunque appassionante e ricca di insegnamenti. Lo dimostra Godard, che ne ha subito tratto profitto: A bout de souffle non sarebbe quello che è senza Les Maitres fous e Moi, un noir.
Resta il fatto, e lo riconosco malgrado dei bei momenti che, per l'appunto, sono estranei all'esperienza, che la PyramideHumaine appartiene a un dominio extra-artistico. È una conseguenza del metodo scelto. Conta solo il dato dell'esperienza. Essa esige la scena lunghissima che capta la durata stessa del vissuto. Ogni montaggio, tuttavia, reintroduce l'artificio e altera la testimonianza. È in questo il limite d'una esperienza esaltante.

J. Douchet
("Arts", n. 818, 1961)


Si tenta l'esperimento, da una parte e dall'altra. Gli europei, Nadine, Jean-Claude, Alain; gli africani, Denise, Raymond, Baka, Elola, Dominique, Landry, ai quali si aggiunge Nathalie, la più bella commessa di Treichville (gi` diva di Moi, un noir) cercano di diventare un gruppo di amici. La vita continua, ma tutto è cambiato. Cerca di nascere una comunit`. La musica di "Giochi proibiti" e le melodie negre mescolano i loro accenti; si affrontano dei problemi nuovi, si evoca il matrimonio tra razze diverse; una mattina, si parla di apartheid.
Nadine - "Apartheid, è la prima volta che sento questa parola".
Denise - "Sono sicura che per la maggior parte dei Francesi questa parola non vuole dire nulla".
La vita continua, ricca di gioie, drammi, malinconie. E Rouch riprende la parola per l'epilogo: "Quello che non avevamo potuto fare anni di corsi in comune nei collegi e il liceo, un semplice film è riuscito a farlo: per un piccolo gruppo di africani e di europei, la parola razzismo non ha più alcun significato".
È difficile giudicare questo film. È stato appassionante farlo, è appassionante vederlo. Eccolo., con una nuova vita. I vecchi complessi spariscono lentamente. Nasce una nuova forma di linguaggio. Uomini vengono verso la luce. La lunga improvvisazione degli allievi della prima classe del Liceo di Abidjan è testimone di un mondo a venire.
Non è solo un documento. La Pyramide humaine è anche un'opera d'arte. E in quanto tale, richiede la critica. La tecnica non è ancora del tutto magistrale, la mancanza del suono diretto obbliga ad alcuni artifici di voce fuori campo spesso ingiustificati; il montaggio è a volte incerto; la sciatteria che tanto nuoceva a Moi, un noir talvolta si fa crudelmente sentire. Si può anche rimproverare a Rouch un certo compiacimento verso il divertente "negretto", cosa che implica una certa faciloneria. Tutto l'insieme tende a un tono "dilettantistico".
Ma il rovescio della medaglia è dei migliori che ci siano. Una volta pagato il prezzo della totale libert`, ecco la poesia. Neri e bianchi, bianchi e neri, i volti si sporgono all'a commossa scoperta dei comuni paesaggi. Non suo covo, dove c'è un vecchio pianoforte, Jean-Claude aspetta Nadine con un abito bianco. Una lunga piroga scivola su un fiume in una sera di fidanzamento. Alain, vecchio capitano, prende il mare su un battello arenato con i fianchi color ruggine, quel battello dall'aspetto minaccioso che sar` la sua bara. Nadine si è addormentata sulle ginocchia di Dominique e un gran sogno dai toni accesi li conduce verso l'unione dei corpi e delle statue che hanno ritrovato il loro magico potere. Versi di Eluard, Baudelaire e Rimbaud volteggiano come i fiori di un paradiso ritrovato sulle labbra di adolescenti e come voci di riconciliazione, nei colori di un'Africa, simile a una foglia morta.
Nathalie, regina della Goumbé, passa dagli scoppi della danza alla canzone rituale delle vedove. Apollo, canzone che è cantata con una gonna rossa, contro un cielo blu, sul finir del giorno, dopo la morte di Alain. Pianti, sorrisi, colori, gesti, tutti tesi a costruire, come un immenso poema, La pyramide humaine.

R. Bellour, cit.

Biografia

regista

Jean Rouch

Jean Rouch nasce il 31 maggio 1917 a Parigi. Si laurea in Lettere, in Ingegneria civile e poi si diploma all'istituto di Etnologia. Durante la guerra conduce inchieste etnografiche in Nigeria e in Senegal. Nel 1946-47 effettua la discesa del Niger in piroga, in compagnia di Jean Sauvy e di Pierre Bonty. Nel frattempo con la sua macchina da presa a 16mm riprende cerimonie e riti, realizzando un affascinante documento di altissimo valore etnografico e registrando la trasformazione di un continente dal colonialismo all'indipendenza. Au pays des images noirs (1947) è il primo di una lunga serie di cortometraggi, realizzati con la tecnica del cinéma-direct. Tale tecnica prevedeva l'uso della macchina a mano e della registrazione del suono in presa diretta al fine di cogliere il reale nella sua immediatezza. Tale scelta, nella sua smitizzazione dello strumento tecnico - che dimostra la concreta possibilità di realizzare un film senza sottostare ai limiti di una tecnologia pesante e di un'equipe numerosa - ha avuto una grande influenza sulla Nouvelle Vague. Col suo metodo Rouch realizza altri film importanti come Moi un Noir (1957) sui giovani che affluiscono a Treichville (Costa d'Avorio) in cerca di lavoro, La pyramide humaine (1958), sui rapporti tra studenti neri e bianchi al liceo di Abidjan, Chronique d'un été (1960), un film sui parigini, girato con Edgar Morin, Chasse au lion à l'arche (1964) su un particolare tipo di caccia in Costa d'Avorio, e Gare du Nord, un episodio di Paris vu par (1966) filmato in tempo reale, che racconta di un abbandono, di un incontro, di una corsa lungo Parigi e di un suicidio. Il metodo di Rouch non va assolutamente confuso col concetto della "vita colta all'improvviso". Rouch provoca con la macchina da presa i protagonisti dei suoi film, li costringe a farsi personaggi e a interpretare storie da loro stessi a volte inventate. In questo modo finzione e improvvisazione si trasformano in strumenti per arrivare alla "verità". Di qui anche il rifiuto del montaggio tradizionale, la trascuratezza formale, la preminenza dei contenuti. Nel 1984 presenta alla Mostra di Venezia Dyonisos: ironica rappresentazione della realtà di un antropologo diviso tra civiltà industriale e mondi primitivi. Dal 1947 a oggi Rouch ha girato più di centocinquanta film.

Cast

& Credits

Regia, e sceneggiatura: Jean Rouch.
Fotografia (Eastmancolor): Louis Mialle, Roger Morilléne.
Interpreti: Nadine Baccot, Raymond Bakayado, Denise e JeanClaude Dufour.
Produzione: La Pléiade.
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