Nazione: RFT
Anno: 1961
Durata: 84'


Un lunedì alle 11, Walter Fendrich, elettromeccanico in un'avviata ditta di lavatrici, va a prendere alla stazione Hedwig Muller: non la vede da sette anni, da quando lei è andata a studiare in citt`. È fidanzato con la figlia del suo capo e la sua esistenza scorreva scontata e prevedibile prima dell'arrivo di Hedwig, che è per lui come il pane, di cui era così ghiotto da piccolo. Anche suo padre gli ha raccomandato per iscritto di prendersi cura di Hedwig: egli le procura una stanza, preleva tutto il conto in banca, le porta dei fiori, trascurando i clienti e il lavoro. La ditta lo cerca a casa, ma neppure la sua padrona di casa sa dove sia sparito. Finalmente il fratello di Ulla, la sua ex fidanzata, lo trova: deve fornire una spiegazione alla ragazza, che ora non intende più sposare. Si incontra con lei e la lascia. Ora Walter e Hedwig, che non possono restare né nella stanza di lei, dove l'attende una conoscente del padre, né in quella di lui, per l'opposizione della padrona di casa, si abbracciano in strada.

Ritenendo che evidentemente un racconto lineare sia di necessit` démodé, Vesely ha sminuzzato l'azione in tanti piccoli frammenti, collegati tra loro in modo irregolare senza tener conto della cronologia. Per di più li ha suddivisi tra cinque o sei narratori, ciascuno dei quali parla per un po' di tempo secondo il proprio punto di vista. Grazie a questa manipolazione il risultato è una sostanziale confusione, un pasticcio irresolubile che rende la vita dura allo spettatore.
Se gi` la struttura del film ricorda molto L'année dernière ` Marienbad, altre immagini di questo snervante puzzle sembrano ispirate direttamente da Hiroshima mon amour. Ma in realt` non è molto importante stabilire se Vesely abbia effettivamente copiato o se con le proprie idee (ne dubito fortemente nel caso degli abbracci in stile Hiroshima) sia arrivato troppo tardi per il concorso di circostanze sfavorevoli. È perciò decisivo il fatto che i suoi formalismi restano alla superficie, che non sono in grado di afferrare lo spettatore e che non ne suscitano la curiosit` perché mancano di fascino. Alla ventesima ripetizione della domanda, se Fendrich sia poi effettivamente andato alla stazione (e se si, quando e a quale), io semplicemente mi rifiuto di continuare, non voglio sapere, mi è del tutto indifferente, perché Vesely non è stato capace di rendermi interessante il personaggio. L'infinita ripetizione di atti banali (l'accensione di una sigaretta in primo piano), il costante ripetersi di immagini che non dicono nulla e di frasi di nessuna importanza (del tipo: "e poi se ne è andato nella Kurbelstrasse") danno semplicemente ai nervi. Vesely, viene da pensare, non ha nulla da dire, ma lo dice terribilmente spesso. Questo però sarebbe ingiusto. Vesely avrebbe qualcosa da dire, se solo fosse capace di formularlo in modo migliore. (...)
Così in Das Brot der frühen Jahre si uniscono un impressionismo nervoso, quale è quello che conosciamo dai cortometraggi di Vesely, e quel campo intellettualistico che caratterizza i più recenti film tedeschi d'avanguardia, da Jonas a Parallelstrasse. Dobbiamo tuttavia essere contenti dell'esistenza di questo film, che tradisce pur sempre la mano di un regista indipendente e che dunque, per questo fatto soltanto, è superiore alla maggior parte dei film tedeschi degli ultimi anni. Questo sembrano averlo capito anche i francesi per quanto ne sappiamo dalle recensioni a nostra disposizione , che hanno trovato il film interessante, ma poco convincente, e che soprattutto hanno disapprovato la sua ricerca dell'originalit` a tutti i costi.

HansDieter Roos, da "Süddeutsche Zeitung", 21 maggio 1962


Perché il risultato non è buono? Perché il film non racconta la propria storia. Perché non comunica con chiarezza ciò che vuole comunicare. Vuole sempre essere oltre, sempre stravagante, sempre originale, vuole in ogni istante essere smodatamente moderno e "diverso". In questo modo non riesce a suscitare interesse per le sfumature e per la vicenda. Le cose importanti sono continuamente interrotte da divagazioni formalistiche. Il film resta disordinato, confuso, troppo stilizzato, disperso e alla fine fastidioso. Il film sfugge continuamente al suo regista. La macchina da presa è nervosa e non si riposa mai. Soltanto di rado si rivolge a ciò che in quell'istante sta accadendo. Fa continuamente delle panoramiche. Fruga sulle facciate delle case, si pone, per così dire, in posizione trasversale rispetto a ciò che è importante. Spilluzzica raffinatezze visive. Quando vorrebbe vedere il viso di chi in quel momento dovrebbe stare in primo piano, di quel viso si vedono raffinati riflessi sul parabrezza di un'automobile. In mezzo a tutti questi ornamenti il viso resta nascosto.
Quando si viene al sodo, quando il dialogo dovrebbe svilupparsi, la macchina da presa ruota raffinatamente su se stessa, compie alcune piroette, si lancia in diaboliche e sempre nuove prestazioni e si d` un gran daffare, brava com'è. Ma si dimentica di ciò che in realt` dovrebbe mostrare. La vicenda segna il passo. Ciò che si vorrebbe veramente dire cade al tavolo di montaggio. Il film di Vesely è maniacale nella forma e fallito nella sostanza. La regia diviene la vittima di una malintesa modernit`. Ah, Marienbad… con tutte le conseguenze.
Il racconto di Böll del giovane uomo segnato dalla fame, che quando è sazio desidera nuovamente la fame, che rompe con un mondo superalimentato e sfugge nell'insicurezza, nell'amore improvviso e nell'avventura vera, poteva venir raccontato con semplicit` e chiarezza. Vesely e il suo collaboratore alla sceneggiatura Leo Ti lacerano continuamente la storia, finché non va del tutto in pezzi. Inseriscono i flashback, senza che questi siano annunciati o appaiano logicamente necessari. Quando si sente la voce del padre, la macchina da presa vaga con raffinatezza su alberi spogli; non è possibile vederlo il padre. Quando l'eroe con la sua eroina parla per la prima volta, dice delle volgarit` in un montaggio alla Hiroshima dei loro corpi nudi. La macchina da presa segue le automobili senza fine; i tram attraversano incessantemente le inquadrature. E ci sono le monotone voci accusatorie degli attori invisibili di una vicenda paralizzata. Il film rende nervosi, perché lui stesso si comporta in modo così trascurato. (...)
Qui c'è un grosso fraintendimento di una modernit` fuorviante che è gi` diventata vecchia. Si vuol lasciar risuonare il "dialogo interiore". Lo si smarrisce, perché non si pone e non si chiarisce mai correttamente ciò che sta in primo piano. Così, senza umorismo e in modo monotono, la parola dispiegata rimbomba su immagini che né la esprimono né la sottolineano. Oppure, se ci si voleva beare proprio di questo contrasto, ottenendo un "effetto di straniamento" dall'accoppiamento di ciò che è diseguale, il risultato è ugualmente un fallimento, perché uno stesso tono continuamente ripetuto e un'espressione costantemente strozzata diventano inespressivi e nel migliore dei casi piagniucolosi, o addirittura insulsi.

Friedrich Luft, da "Die Welt", 21 maggio 1962


Vesely ha visto Hiroshima mon amour e L'année dernoière ` Marienbad e la sua quiete è andata perduta. Si è deciso per un movimento circolare: non riesce ad andare oltre quel poco che intende raccontare, e neppure lo vuole, perché si è ostinato a distruggere meticolosamente ogni struttura narrativa. E poiché egli deve montare in modo sempre nuovo e sempre più artificiale i frammenti faticosamente raccolti, non riesce a liberarsi della sua storia: non ha neppure il tempo di recuperare e di riguardare il tempo. In Vesely non c'è né pane né anni verdi. Solo all'importante figura del padre, che è l'immagine del ricordo, permette di guardare soltanto per un attimo (del resto in modo efficace) nel presente; per il resto egli elimina il presente, lo aliena nei suoi tratti morali e sociali, lo trasforma per così dire in un caso; la fame, anche quella metafisica, e quindi anche la ribellione (c contro chi poi?) diventano del tutto irrilevanti, senza che il regista sappia sostituire all'ambivalenza di Böll un nuovo tipo di realt`, sia pure quello dell'irrealt`.
L'importanza delle cose, l'iperrealismo di RobbeGrillet e di Resnais, che raggiunge la trascendenza magica di ciò che è troppo preciso, diventa in Vesely mania boriosa, gesto vuoto (si pensi a quando la cameriera di Fendrich accende per la quinta volta la sigaretta enormemente ingrandita). La ripetizione icastica di alcuni dialoghi o monologhi, che in Robbe-Grillet affondano nell'inconscio e, simili a spirali, penetrano sempre più profondamente, si ritrova in B6Il addirittura rafforzata, anche acusticamente. Ma la banalit` di questi brandelli di frasi che circolano in continuazione, non diventa più illuminante soltanto perché e voluta. Vesely dunque segue le tracce frammentarie del tempo presente, scoperte da altri, con grossolanit` e con lo stesso appetito che abbandona il suo monotono Fendrich. E le trasforma in pesanti pietre che gravano su di lui e sul film come quelle altre pietre che pesavano nello stomaco del lupo di Cappuccetto Rosso, e che lo hanno poi fatto cadere nel pozzo.

Karena Niehoff, da "Der Tagesspiegel", 3 giugno 1962

Biografia

regista

Herbert Vesely

Cast

& Credits

Regia: Herbert Vesely.
Soggetto: dall'omonimo romanzo di Heinrich Böll (1955).
Sceneggiatura: H. Vesely, Leo Ti, Hans Robert Budewell.
Assistente alla regia: Leo Ti.
Dialoghi: Heinrich Böll.
Fotografia (35 mm, b/n): Wolf Wirth.
Assistente alla fotografia: Petrus Schloemp.
Montaggio: Christa Pohland.
Musica: Attila Zoller (consulenza musicale: Joachim Ernst Behrendt).
Interpreti: Christian Doermen (Walter Fendrich), Karen Blanguernon (Hedwig Muller), Vera Tschchowa (Ulla Wickweber), Eike Siegel (Signora Brotig), Tilo von Berlepsch (padre di Fendrich), Gerry Bretscher (Wolf Wickweber).
Produzione: Modern art film (Berlino Ovest).
Produttore: Hans Jürgen Pohland.
Ispettore di produzione: Peter Genée.
Prima proiezione: 25/5/1962 al Festival di Cannes
5 Bundesfilmpreise.
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